Orientamento sessuale, identità di genere, religione, disabilità e multiculturalismo. In una parola, diversity. Per anni, è stato lo spauracchio della comunicazione: un tema che anche i grandi brand preferivano evitare, per paura di inimicarsi parte del loro pubblico. Da qualche anno però la situazione è cambiata. Anzi, si è completamente ribaltata. Oggi la diversità è cool. Lo era anche prima, ma in molti non se ne erano ancora resi conto.
Dalla parte dell’inclusività.
Oggi, i brand che si “schierano” dalla parte dell’inclusività crescono più rapidamente degli altri. Non solo: anche la fedeltà al brand aumenta, così come il passaparola positivo. In poche parole, i brand che non hanno paura di parlare di diversity (e che lo fanno in maniera positiva) diventano un modello da seguire. Secondo il Diversity Brand Index, l’80% della popolazione mondiale sceglie - o preferisce - brand inclusivi. Un dato importante e in costante crescita, che le più grandi aziende globali hanno bene in mente. Non è un caso che grandi brand scelgano di parlare di diversità legandola indissolubilmente ai valori del marchio.
Una scelta etica? Sì, ma non solo.
Noi, che siamo una Società Benefit e una B Corp certificata, seguiamo quella stessa strada. Nel nostro statuto è scritto a chiare lettere:
“[Arkage] privilegia l’utilizzo di messaggi positivi nelle proprie attività e progetti di comunicazione promuovendone l’impatto sociale e ambientale positivo, con particolare attenzione allo sviluppo di una cultura inclusiva per il superamento di stereotipi estetici e culturali; basa la propria operatività, in linea con i valori fondanti, sul rigoroso rispetto delle persone secondo i principi di etica, trasparenza e inclusività.”
In Arkage, non abbiamo mai pensato alla diversità come un ostacolo o come qualcosa da nascondere. Anzi, la diversità va celebrata, è un “plus” (avrebbero detto qualche anno fa) della razza umana e, più in generale, è ciò che ci ha permesso e ci permette tuttora di evolverci. La nostra quindi non solo è una scelta etica ma anche strategica, che si lega al concetto di trasparenza e autenticità - quello che noi definiamo glassbox approach - che oggi le persone chiedono ai brand.
Un trend tutto italiano
La scelta di un prodotto (o servizio) è sempre più influenzata dai valori dell’azienda che lo promuove. Ecco perché oggi è necessaria una comunicazione values-based per entrare in contatto con il pubblico. La maggioranza delle persone vuole che i brand prendano una posizione riguardo ai problemi politici e sociali. Anche qui in Italia, contrariamente a quanto si possa pensare: secondo un sondaggio Nielsen, il 38% degli italiani sarebbe favorevole a più pubblicità che mostri famiglie moderne e non tradizionali, ad esempio con genitori single, multietnici o dello stesso sesso. In fondo, il ruolo della comunicazione è anche questo: promuovere messaggi positivi intercettando un pubblico sempre più diversificato. Ultim’ora: il target di massa è morto. E anche l’idea di un Italia tradizionalista.
Sì, ma come si fa?
Lo abbiamo detto prima: i grandi brand si stanno muovendo in questa direzione già da un po’. Come? Nel modo migliore possibile e cioè non focalizzando l’attenzione sulla diversity, ma trattandola come fosse parte integrante del brand, anche quando l’oggetto della comunicazione sembra lontanissimo da questi temi.
Se vogliamo cambiare la moda, dobbiamo cambiare il modo in cui pensiamo alle persone. H&M, nelle sue campagne per il riciclo degli abiti usati, parla allo stesso tempo sia di rispetto per l’ambiente che di rispetto per la diversità. La sostenibilità diventa quindi un concetto più ampio, che investe l’intero pianeta e che “calza” alla perfezione con i valori che il brand comunica, non solo nello spot “Close the loop” ma in ogni sua produzione.
Quando si parla di inclusione, si fa spesso l’errore di pensare che l’obiettivo è quello di dare maggiore “visibilità” a chi viene considerato diverso. Non è così: inclusione significa che tutti devono poter vivere qualsiasi tipo di esperienza insieme, senza distinzioni o separazioni. È da questa idea che nasce il progetto #andarelontano per Telethon: il racconto del primo giorno di scuola visto dagli occhi dei genitori, ognuno con la sua storia e le proprie emozioni. E non importa se siano genitori di bambini malati o no: siamo tutti genitori, siamo tutti bambini.
Insomma, qual è la morale?
Incredibilmente, non c’è nessuna morale alla fine di questo articolo, solo una domanda: in un mondo che sta cambiando (anzi, che è già cambiato), sempre più attento alla tematiche sociali e ambientali e orientato verso un modo di fare business sempre più diversificato e inclusivo, chi sceglie di continuare a lanciare messaggi unificati senza umanità e chi, invece, decide di vivere nel proprio tempo, dando davvero più valore alle persone?